L’immagine di copertina è una creazione di Giulia Faina
Roma e il cinema sono sempre stati un binomio fortunato: la bellezza, l’eternità, anche il caos e le contraddizioni dell’Urbe, hanno sempre affascinato registi e sceneggiatori che dalle sue storie si sono lasciati ispirare, per regalarci pellicole che, come Roma, resteranno eterne nella memoria collettiva.
Quello che al grande pubblico però sfugge è che dietro questi capolavori della settima arte si celano delle storie vere, spaccati di vita e metafore di esistenze che si mescolano e si perdono tra i vicoli della Città Eterna.
Eccovi qui svelati, allora, i segreti dietro ai grandi film!
Roma, città aperta di Roberto Rossellini, 1945: il film è celeberrimo come lo è il suo regista e i suoi protagonisti: Anna Magnani e Aldo Fabrizi. Altrettanto celebre è la scena in cui Pina (Magnani), muore fucilata rincorrendo il camion dei tedeschi che avevano catturato il suo Francesco.
Una scena così intensa, da far scrivere a Giuseppe Ungaretti, pensando all’attrice: “T’ho sentita gridare Francesco dietro il camion dei tedeschi e da allora non ti ho più dimenticata”.
Quel che pochi invece conoscono, è la storia, vera e straziante, che ispirò questa scena a Rossellini: quella di Teresa Gullace, una casalinga di 37 anni, madre di cinque figli e, all’epoca dei fatti, incinta del sesto.
Durante un rastrellamento nei pressi di Porta Cavalleggeri, il marito, Girolamo, fu arrestato e consegnato ai nazisti.
La mattina del 3 marzo 1944 un gruppo di donne appartenenti ai GAP (Gruppi d’Azione Patriottica) si riunirono sotto la caserma dei carabinieri, presidiata dai nazisti, per protestare contro l’arresto e la deportazione degli uomini.
Teresa arrivò in ritardo, forse perché al settimo mese di gravidanza, tenendo per mano il figlio Umberto, di tredici anni, e si unì alle donne.
Mentre con loro gridava “Liberateli!”, riuscì a scorgere da una finestra il marito e gli si avvicinò per consegnargli un pezzo di pane. Quell’atto d’amore coniugale non piacque ai nazisti, che le spararono, uccidendola sul colpo.
Con quel colpo e quella crudeltà, un’anonima casalinga era diventata il simbolo della Resistenza italiana, ed era entrata per sempre nella storia grazie all’interpretazione della grande Nannarella.
Vacanze Romane, di William Wyler, 1953: vincitore di ben 3 premi Oscar, è il film che ha reso Audrey Hepburn e il suo stile unico ed immortale!
La storia è quella della principessa Anna in viaggio a Roma per motivi diplomatici, e del suo incontro/scontro col giornalista statunitense Joe (Gregory Peck), che si offre di scortarla in giro per la città in gran segreto, con l’intenzione in realtà di scrivere un articolo su di lei.
Ma mentre la vicenda dei due procede nel film, noi ci spostiamo nel dietro le quinte, dove scopriamo da dove proviene l’idea per Vacanze romane: da una fuga segreta tutta italiana della principessa Margaret d’Inghilterra, la sorella della regina Elisabetta.
E’ a lei, infatti, che è ispirato il film, e alla sua storia d’amore col colonnello della RAF ed eroe di guerra, Peter Townsend. Come nel film, purtroppo anche nella vita i doveri reali impedirono questo amore: nonostante le grandi onorificenze, Townsend rimaneva un uomo divorziato e con figli, un vero scandalo per l’opinione pubblica dell’epoca. Alla fine, la regina si trovò a dover negare il permesso per il matrimonio della sorella con l’uomo che amava.
Un Americano a Roma, Steno, 1954: Alberto Sordi è qui Nando Mericoni, un bulletto di Trastevere con una ridicola ossessione per gli Stati Uniti.
Da genio comico e creativo quale era, fu Alberto Sordi stesso a inventare il personaggio di Mericoni.
Siamo sul set di un altro film, Un giorno in pretura, e il regista Steno si rende conto che mancano pochi minuti per raggiungere la lunghezza da contratto del film.
Cosa fare?
Steno lascia carta bianca a Sordi: indossati un paio di jeans e una maglietta bianca, fa il suo ingresso in scena Nando Mericoni, da tutti conosciuto come “l’Americano”. Talmente il successo di quel personaggio “tappabuchi”, da far nascere un film interamente dedicato a lui.
La dolce vita, di Federico Fellini, 1969: è una Roma alla moda e allo stesso tempo un po’ decadente quella che ritroviamo nell’iconico film del regista, e che ci lascia senza fiato nella celebre scena della Fontana di Trevi, con la giunonica Anita Ekberg che invita “Marcello” (Mastroianni) a raggiungerlo in acqua.
Una curiosità su quella scena: Ekberg non ebbe alcun problema a restare per ore in ammollo nella fontana a girare e rigirare la scena.
L’italico Marcello, invece, chiese di indossare una muta sotto al costume di scena e, prima del ciak, si scolò una bottiglia di vodka!
Roma, Federico Fellini, 1972: ancora Fellini, ancora con un film dai tratti autobiografici.
Roma è il racconto dell’incontro del regista con la città che lo conquistò dal primo istante, di cui racconta:
«In un pomeriggio di ottobre del 1938 arrivai alla stazione, salii su una carrozzella e andai in Via Albalonga, rione San Giovanni.
La prima cosa che mi capitò, scendendo dalla carrozzella davanti al numero 13 in cerca dell’affittacamere, fu di prendere uno sputo in testa da tre ragazzini che non si sono neppure ritirati dalla finestra.
Fu la scoperta del romano, l’antico suddito papalino che vive in una città improbabile cresciutagli attorno a tradimento, uno che non si fida di dire la verità perché “non si sa mai”, pauroso per timori atavici, un uomo dalle prospettive molto ravvicinate, attorniato da storia e monumenti ma rapportato soltanto alle consuetudini quotidiane e alla tribù familiare: mamma, sorelle, nonni, nipoti, zia.»
C’eravamo tanto amati, di Ettore Scola, 1974: un omaggio a Roma, al Dopoguerra e al cinema italiano, in cui ritroviamo anche due protagonisti appena citati: Fellini e Mastroianni, che interpretano se stessi proprio sul set de La dolce vita, dove il regista viene scambiato per un suo collega, Roberto Rossellini.
Nel cast, un’altra pietra miliare della cultura di massa italiana: Mike Bongiorno, anche lui nei suoi stessi panni.
La grande bellezza, di Paolo Sorrentino, 2013: ci avviciniamo a tempi più recenti con l’ultimo Oscar italiano.
Pellicola che ha diviso la critica, tra gli italiani che lo accusavano di presunzione nel copiare Fellini, e stranieri entusiasti che ne lodavano la (grande) bellezza. Esattamente come per le pellicole di Fellini.
Un ultima curiosità, un omaggio alla poesia del film: il titolo “La grande bellezza” deriverebbe da una scena tagliata.
Un vecchio regista, interpretato dal defunto Giulio Brogi, racconta al protagonista, Jep Gambardella (Toni Servillo), la sua prima sensazione di “incanto”, nel giorno dell’accensione del primo semaforo a Milano. «Mi pare che fosse il 12 aprile 1925. Mio padre mi mise sulle spalle perché c’era una gran folla, ma capisce? Una folla, radunata per vedere un semaforo. Che bellezza! Che grande bellezza!»
Giulia Faina
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